Come la maggior parte degli artisti che nel campo delle arti visive provengono da studi accademici, C.C. è partita negli anni 80 da esperienze di pittura figurativa celermente abbandonate. Ha poi ben presto proseguito e aggiornato la sua ricerca, spostandosi nell’area Informale e Concettuale ed infine negli anni 90 ha raggiunto un’immagine rinnovata, facendo quello che Ella stessa definisce il “salto verso il tridimensionale”. Il suo lavoro corrente, condividendo con la maggior parte dell’attualità la pratica dei “mixed media”, tende a includere “installazione, libro d’artista, libro oggetto, arte postale, fotografia e video-installazione”. Più volte abbiamo detto che, questa eterogenesi tecnica corrisponde ad una apertura incrociata delle possibilità e dei livelli contemporanei di costruibilità dell’opera. Non c’è riflessione sul contemporaneo che ormai non contenga questo sincretismo tecnico e a dir poco espressivo. Tutti gli artisti contemporanei tendono a gestire una traduzione di montaggi linguistici e una pratica che oscilla tra produzioni e post-produzioni. Ma detto questo, sembra che la situazione tenda a rappresentare un quadro abbastanza piatto dell’espressione e della sua forma estrinsecativa. Nel caso specifico del lavoro di C.C., la questione non sta proprio così, perché sia per quello che riguarda una dimensione tecnica e sia per ciò che coinvolge una profondità e lunghezza espressiva, esso si basa su atmosfere e densità ricche di riferimenti, segni e codici plurisignaficanti. Basta calarsi nei titoli che accompagnano i lavori: Oltre l’essenza, L’abbandono delle parole, Il contenitore dell’anima, Luci ed ombre, In/finito e Silenzi.
Nel corso delle sue ricerche mirate alla pratica delle opere, C.C. è assistita da una persistente indagine sui materiali e sulle loro imminenti attuazioni. Infatti, ogni opera ha una sua forma definitoria ed una sua ricorrente stabilità, che riconduce a dei recipienti, delle scatole o anche teche. In effetti, se si riflette attentamente sulle “figure” evocate dai titoli, possiamo osservare che anch’esse sono delle essenze che confluiscono nella visione di un “involucro”. Le “scorze” sono dei veri e propri materiali che avvolgono le essenze: dentro ai tegumenti - cosparsi da un colore alternato tra il bianco, il trasparente e il grigio - si nascondono le lingue “dell’ulteriore” e le assenze di rumori. L’essere dell’essenza artistica è qualcosa di molto sfuggente, ma che da sempre ha avuto interesse per la conoscenza dell’esistere e di ciò che molti uomini vi hanno lasciato inciso: una parte delle loro emotività e del loro modo di mostrarsi. Quante emozioni e sensazioni di menti aperte, che fanno fatica a materializzarsi, vagano nell’etere di questi involucri. L’esistere è infinito, ma anche la capacità intellettiva in un certo senso lo è. Nel guscio di queste opere arrivano convogli di informazioni e di riferimenti e non sempre si riesce ad intuire il loro vibrare e, quindi, a portarli a concretezza. Quanti disperdono il loro potenziale, senza accorgersi della forza intellettiva che attende di essere valorizzata tra le pieghe di un involucro. È una potenza allo stato latente che non può da sola venire fuori. Un’ascendenza che ha bisogno della struttura interna di una costruzione, in grado di disegnare un’intimità.
La mente come si sa è energia e di essa nell’opera d’arte è rappresentabile solo il lavoro, il costruito, non l’energia (la forza). Essa oggi, nella metamorfosi continua dell’arte contemporanea appare ed è irrapresentabile. Per meglio dire, potremmo quasi constatare che l’arte moderna ha scelto di non rappresentare più la forza di un valore o di un’immagine. Tutto ciò era possibile nell’arte antica: Michelangelo ed il suo Mosè è stato efficace. Ma invece non sono stati chiari - perché non volevano esserlo - artisti come Picasso, Duchamp, o Beuys. Sono altre le ragioni per cui sono giunti alle loro celebri opere. La mente è dunque tante cose, basterebbe riuscire a concentrare una minima parte di essa in un “lavoro artistico” per far sì che corpi ritenuti meno duttili si piegassero alla sua immagine. Spesso mi ero chiesto se la mente, anatomicamente, avesse potuto contenere quanto, sottoforma di densità estetica, esprime. Dopo tantissime riflessioni, sono giunto a questa conclusione: la mente vista attraverso il tegumento di un lavoro artistico non è altro che “senso”. E il senso nella sua essenza non è altro che energia vibrante, una base di lancio e di ricezione. Il suo compito è quello di captare e di elaborare quanto in essa vi si adagia. La sua capacità di conduzione è incommensurabile. Essa riporta costantemente in proiezione quanto in precedenza ha avuto la possibilità di memorizzare: come ogni altro lavoro artistico, ecco che Oltre L’Essenza, L’Abbandono delle Parole riuniscono il loro passato di segni poetici, raccogliendo un’esperienza e nutrendosi contemporaneamente del loro presente. Il Contenitore dell’anima è quasi un atto di presunzione che in una forma così minuta non conosce frontiere e può visualizzare tutto quanto è visibile alla conoscenza tramite l’offerta della sua stessa architettura. Luci d’Ombre gioca, invece, tra le impressioni di immagini e le impressioni delle cose. La mente è un’energia molto particolare e l’energia non può essere contenuta in una piccola sezione anatomica, in essa vi è solo la sede. La mente, anche attraverso l’opera, ha la sua costruzione ed il suo cammino al di fuori della materia. Per riuscire a farmi meglio comprendere, potrei dire che - come nel caso di In/finito o di Silenzi - l’essenza dell’opera, la sua mente si trova come una stazione ricevente che riesce a magnetizzare nell’etere, sempre per sua emissione (cum sui), quanto recepisce. I piani interni di un lavoro artistico si servono dello loro base materiale per poter espletare un lavoro di ricerca, nonché di visualizzazione.
L’essenza, dal latino substatia e dal greco ipostasis, è la reale costituzione interna dei fenomeni e delle cose, ciò per cui una cosa è quella e non un’altra. Spinoza definì bene l’essenza, dicendo: id sine quo res et vice versa quod sine re nec esse nec concipi potest. In effetti, essenza si oppone ad accidente e serve a definire il complesso dei luoghi metafisici dell’abitare. Il lavoro di C.C. sfida degli argomenti oltremodo impegnativi e spesso lo fa con l’attenzione di chi non vuole cadere nella banalizzazione del misticismo o della religiosità fine a se stessa. La sua poetica va cercando soggetti e argomenti globali, come quelli della venuta al mondo, del soffio vitale, della sopravvivenza, del sonno eterno e della dipartita finale. Una tale indagine non parte dallo sprone presuntuoso di trasformare l’arte in filosofia, e quindi di sostituire la costruzione dell’opera con un trattato sull’essenza della natura umana, sulla nascita, il senso dell’esistenza e sul destino dell’uomo, anche perché sarebbe molto difficile fare tutto ciò partendo dagli strumenti che nel contemporaneo l’arte si è riservata. La C.C. tratta questi argomenti per dire ciò che l’arte riesce a sviluppare tramite i suoi segni e le sue potenzialità. Infatti, ella riesce a svolgere solo ciò che è visibile nella quasi totale astrazione. Ed in essa, ad esempio, evidenzia il concetto spazio/temporale sviluppato come ricerca della “verità” e della percezione.
L’ intenzionalità di C.C. si riesce a sintetizzare nella formula dell’Agone di T. S. Eliot: “Birth, and copulation, and death”. Come ella stessa proverà a scrivere del suo lavoro, esso “tende ad avvantaggiare l’essenzialità compositiva fatta dalla ricorrente immagine riplasmata del cucchiaio (elemento in grado di simboleggiare adeguatamente l’umano), dall’intrigo di segni-ragnatela, da trasparenze, da bianchi su bianchi, da sospensioni, da vuoti e assenze. Questi elementi sono il centro propulsore di un linguaggio e sono visti come sensori di percorsi che si muovono lungo la sottile linea di confine della nostra sfera interiore”. Ciò che si può circoscrivere di questo lavoro, è il segnale che C.C. indica col termine sensore e quello che suggerisce con la definizione di sfera interiore. Intorno a questi due concetti, si rastrellano tutti gli elementi che danno vita all’architettura dei suoi lavori. Un edificio, così come dicevamo poco sopra, molto semplice ed essenziale, quasi adatto a quella forma che veicola messaggi con altre “tensioni”. Prendiamo ad esempio Oltre l’essenza! In fondo si tratta dell’architettura di un labirinto, forse dell’evocazione di una simbolica labirintica abbastanza semplice e unicorsale. Volendo riferirci allo standard labirintico, dovremmo sapere tutti che il Labirinto è un edificio costituito di sale e passaggi intricati, progettato in modo che chi vi entri abbia poi difficoltà a ritrovare l'uscita. Tra i tanti labirinti dell'antichità, forse il più famoso è un tempio funerario eretto da Amenemhet III in Egitto e contenente tremila camere; ugualmente celebre, ma forse soltanto leggendario, fu il labirinto di Creta, all'interno dell'elaborato impianto del palazzo di Cnosso. Secondo la mitologia greca, questo labirinto fu costruito dall'architetto ateniese Dedalo, affinché servisse da prigione per il Minotauro, un mostro mezzo uomo e mezzo toro. Tra gli altri labirinti antichi si citano quello dell'isola di Lemno e quello della tomba di Porsenna a Chiusi. Ma il termine labirinto è anche applicato allo schema particolarmente intricato della pavimentazione di alcune chiese medievali, tema figurativo che, probabilmente, voleva simboleggiare un percorso penitenziale, o il difficile viaggio del cristiano verso la salvezza. Oltre l’essenza è un’opera piccola (cm 60 x 60), come del resto lo sono tutti i lavori realizzati dalla C. C., essa è realizzata con una tecnica mista apparentemente semplice (plexiglass su legno), quasi come se si giocasse sull’immagine semplice del labirinto. Qui le parole possono essere realmente abbandonate e forse anche la velleità dell’immagine svanisce come il fumo della sigaretta nella nebbia. Si vede solo un percorso intricato, con delle frazioni e delle segmentazioni molto lineari, qualche tratto della disposizione minimale ricorda i rovesci delle monete di Cnosso. L’immagine non invita il viaggiatore con il suo occhio nel context-free e gli angoli o le anse del dedalo non ricordano gli incroci di Escher, né la mappa della Grotta-labirinto di Cortina nell’Isola di Creta. Guardando questi segni di strade immaginarie, ci viene in mente che labyrinth in tedesco ha come sinonimo Irrweg, ovvero cammino di errori e di confusione e quindi Dedalo è anche l’archetipo del disordine, del caos, dell’entropia.
Ci ricordava Rudolf Arnheim nel 1971 che “Qualcuno o qualcosa ha confuso i nostri linguaggi: il massimo di ordine viene trasmesso da un massimo di disordine”. Chi trasgredisce la legge e non si adegua ai tratti ordinari dell’essenza che potrebbero risultare rassicuranti, come spesso capita nell’arte, è destinato a scontrarsi con la mescolanza e col pasticcio, insomma è destinato a fruire lo spazio di un’interiorità che non ha mappatura. Il primo tratto che indica un labirinto è legato al tema dell’esplorazione, se si guarda il titolo si capisce subito che l’intenzione dell’autrice è quella di spostarci al di là del carattere necessario dell’oggetto definito e, quindi, al di là di ciò che Tommaso - nella sua opera più celebre L’Ente e L’Essenza (composta a Parigi tra il 1252/1256) - definiva come quiddità.
L’unicursalità del labirinto cretese è già uno sprone per spingersi al di là del cul-de-sac. Basta fare un giro nel centro storico della città di Lucca e dopo un po’ si sente il bisogno di sfuggire al teorema dell’urbanista che ha disegnato il nostro percorso. Si parla di labirinti unicursali, arborescenti, di numero ciclomatico K, lasciando intendere che la complessità del Dedalo cresce con K, ma il groviglio ci riporta all’enigma di Joseph K.! Fin dalla prima frase del Processo di Franz Kafka, si è come scaraventati senza preavviso in una sorta di incubo grigio senza uscita, dove tutto è illogico, eppure coerente ad una logica a cui però noi non possiamo accedere. Josef K. viene arrestato per una colpa che non gli verrà mai rivelata e per la quale tuttavia prova una vergogna insopportabile: tutto è angusto, buio, caotico, squallido, soffocante. Giorno per giorno, lungo l’ottuso dedalo della vicenda, Josek K. vede sgretolarsi la sua dignità, fino all’impietosa esecuzione finale. L’immagine del labirinto è, dunque, per C.C. uno strumento per rappresentare l’uomo di fronte al suo mistero e segnalare poi una corsa verso una luce. A differenza del Processo, nella sua opera tutto è apparentemente pieno di luce, non ci sono le ombre di Kafka, ma è in quel confronto col viaggio rischiarato che il lavoro acquista una folata di aperture ai grandi temi della vita e alla condizione della donna come sapere contemporaneo della differenza. Il labirinto rimane oltre l’essenza, perché la soluzione di ogni mistero è sempre inferiore al fascino stesso del mistero, dell’intrigo. La soluzione dell’oltre è l’accettazione del piacevole gioco di prestigio e il mantenimento stesso della tensione, forse è questa la possibilità dell’arte. Una tale possibilità è visibile anche nella Video installazione IN/FINITO (2007, DVD-R PAL D1 1’20” 2007, Ideazione e Progetto: Carmela Corsitto, Elaborazione grafica: Giacomo Deriu, Sonoro: Marco Soverini).
Mi sia consentito tornare una volta di più sul fatto che, l’incremento del caos antropico e labirintico coincide con una serie di richiami simbolici ed allegorici quasi organici. Nei lavori multimediali di C.C., da un lato si sente in maniera frequente un impulso alla semplicità, che in genere promuove la regolarità dell’immagine e l’abbassamento del livello dell’ordine e dall’altro il dissolvimento disordinato della forma, che tende a disgiungersi e a congiungersi. Ambedue questi rapporti conducono alla modifica di trazione. Il tema rappresenta nell’arte ciò a cui l’opera mira. Il video si produce in un vuoto “minimalista”, messo in atto tramite scansioni armoniche e separazioni, contatti e forme scavate. L’argentino rumore dell’acqua, non è una colonna di accompagnamento all’immagine, ma man mano che le forme si incontrano e si frantumano, si attaccano e poi si spezzano, diviene parte integrante di tutta l’opera. Nel punto di mezzo dell’immagine digitale, quasi a mo’ di sostanza staccata da terra (ma che forse proviene dalla terra), vi è un anello e delle figure corporali che mostrano la loro entità fisica. Essi, quasi come se volessero accennare ad una forma trasparente di narrazione e di movimento sequenziale, accompagnandosi con un adagio, si spostano in progress rincorrendo con un palpito “crescente ciò che l’artista stessa definisce la “diffusione del fuori-sé” ”.
Il video è breve ma intenso, così come lo sono i suoi lavori mixed media. Mentre l’Abbandono delle parole si presenta come un libro-oggetto, che è andato oltre le cancellature di Emilio Isgrò, mostrandosi come delle grandi sfoglie di vetro trasparente, il video defigura nella scansione dello spazio elettronico la possibile traduzione di qualsiasi paesaggio ordinario. Alla fine il ritmo del video si imbarca sulla strada dell’attenuazione e della discesa, e le allegorie ancestrali si muovono come l’angelo di Klee, con le ali rivolte al passato, per poi stemperarsi all’interno del circuito raffigurativo, che è ancora altro labirinto e “interfaccia dei due mondi”. C.C., essendo una concittadina di antichi sapienti greci, è attenta alla presa d’atto del vuoto, quello dell’intuizione parmenidea. Ed è proprio nel granello di inconsistenza e di luogo digitale privo di corpi, è proprio nello spazio artificiale infinito che potremmo ricordare, tramite l’atomismo indivisibile di Democrito e di Leucippo, che lo sguardo dell’astante rimane catturato dall’immagine schermatica e viene immobilizzato in una stabilità scolare.