In una linea di continuità, anzi di espansione ed integrazione di senso, le installazioni di Carmela Corsitto affrontano il tema del rapporto sono solo visivo ma semantico tra contenente e contenuto: questo non è indagato in sé, come puro fenomeno dialettico, ma è investito di un valore che costituisce il senso stesso dell’esistenza. Nel particolare, il tema è organizzato su una forte alternanza di luce e ombra risolta nel bianco della sala contenente le sfere chiare, e nello scuro dell’ambiente che si stringe intorno all’unico punto luminoso nel quale un libro nero offre la propria illeggibilità.
Nel primo caso lo straniamento provocato dalla illogica presenza delle sfere (che rimandano a solidi geometrici ma, a differenza di questi, sono scabre e rudi) in una sala ampia, fortemente illuminata, da niente altro abitata, conduce a una sorta di disagio psicologico: il lettore è indotto a esaminare da vicino le sfere, scoprirne l’ambigua fisicità, tentarne un’interpretazione partendo dall’unica che fa trasparire qualcosa, ma che offre soltanto un intrigo di segni-ragnatela allusivo a quanto di problematico e incontrollabile può esserci nella vita dell’uomo. Un problema proposto come soluzione di un altro problema, dunque un circolo vizioso, ripetitivo che, malignamente, riconduce allo straniamento e al disagio sopra accennati, adesso più accentuati dall’insuccesso interpretativo. Le grandi sfere disposte in uno spazio senza termini di riferimento sono oggetti enigmatici, inquieti ed inquietanti, colti in una fissità che è soprattutto psicologica, contrastano con ogni idea di movimento ed evoluzione, rappresentano la traduzione visiva della sospensione atemporale, del luogo-non luogo, instaurando una dimensione prospettica quasi trascendentale.
Il disagio prodotto dalla seconda installazione è inizialmente fisico: il visitatore è indotto a raggiungere il punto luce, che gli si propone come un miraggio di conoscenza, ma deve attraversare una larga zona d’ombra, quasi dissolvendosi in essa, e non sapendo dove e come poggiare i piedi. È attratto da una speranza (o da una semplice curiosità) che sarà tradita: infatti il libro nero che gli si offre all’osservazione una volta raggiunta la meta non è che una parvenza fisica di se stesso, un oggetto oscuro e ottuso, non consultabile. Una piccola apertura quadrata, trasparente, promette la soluzione del mistero, ma non mostra niente. Il viaggio attraverso il buio finisce in una specie di ghigno beffardo, o (a seconda della sensibilità della vittima) in un amaro disinganno che investe i valori nobili dell’esistenza, come la conoscenza e la comunicazione.
Temi forti e, per loro verso, definitivi, ai quali Carmela Corsitto non si sottrae, e che, anzi, dalla fantasia critica dell’artista traggono una loro consistente significatività, e quel tono di sottile drammaticità tipico dell’indagine sull’essere e sul divenire che è il tema centrale dell’opera di Carmela Corsitto.
Livorno, aprile 2005
Le ragnatele di Carmela Corsitto sono il simbolo di quanto di problematico, imprevedibile e incontrollabile esiste nella vita dell’uomo; seguendo la loro volute e i loro grovigli la mente perde le proprie coordinate ma, al tempo stesso, cede spazio alla fantasia creatrice, o più semplicemente alla fantasticheria, che è pur sempre indizio di gioia e di libertà.
Tuttavia le ragnatele non si materializzano in uno spazio aperto e , per così dire, indeterminato: esse sono costrette, circoscritte da ambiti rigorosamente assegnati, bidimensionali (nelle opere attaccate alle pareti) o solidi, quasi a introdurre e testimoniare un meccanismo di doppio rapporto, a variabile tasso di conflittualità, che esiste tra il decidere e il sentire, il progettare e il creare, che in effetti determina e qualifica, al di là delle ipotesi e dei sogni personali, la concreta esperienza del vivere.
Questo doppio rapporto non è uno scontro di posizioni inconciliabili. In effetti il plexiglass, al quale è affidato il compito concettuale di contenere regolare e ordinare, è trasparente e dunque non solo consente di vedere ma anzi produce esso stesso espositività; per parte loro i grovigli di segni che costituiscono le ragnatele posseggono spessore e concretezza talora in senso proprio, fisico, sempre in senso visivo, e in qualche modo impongono le proprie ragioni alla potenza contentiva dei loro luoghi di apparizione.
Il tema delle ragnatele è certamente un rimando alla stagione informale attraversata dall’artista. Tuttavia esso permane nell’esperienza successiva, svolgendo un ruolo importante non solo nel senso di una opportuna continuità tematica e linguistica, ma anche come interlocutore diretto e privilegiato di quel dialogo infinito e infinitamente (cioè senza interruzione di effetto) produttivo tra idea e sensibilità al quale si accennava in precedenza.
Un simile ruolo di interlocutore privilegiato assume, in altre opere (che si intrecciano cronologicamente con le precedenti e dunque rappresentano una diversa ma non liquidatoria riflessione), l’oggetto cucchiaio che l’artista investe di una potente energia deformante che ne altera la direzione, l’aspetto visivo, la sostanza fisica, ma non ne compromette la generale riconoscibilità, l’alternanza concavo-convesso, tra la distinzione tra il manico e la restante parte. Il cucchiaio, dunque, mantiene intatto il suo riferimento alla vita quotidiana, al suo uso comune, e testimonia la sua appartenenza al mondo reale esterno, che è coinvolto in modo non solo allusivo nel procedimento artistico; e tuttavia esso è anche un indizio di tormento, di perdita di funzione, di problematica identità con se stesso. Compensa tutto ciò con l’acquisizione, per altro indiretta e dubitosa, di un valore simbolico, riferibile al rapporto pieno-vuoto, contenente-contenuto, maschio-femmina (sebbene la fatale somiglianza che finisce per assumere con lo spermatozoo tenda, a mio parere, a privilegiare la componente maschile): cioè ad alcuni dei dualismi più profondi dell’esistenza.
Anche in queste opere il deuteragonista (sembra inesatto parlare di antagonista) e il luogo d’apparizione dell’oggetto. Anche qui tale luogo è costituito da una costruzione rigorosa, affatto artificiale, concentrativi, fortemente consistente nel proprio assetto geometrico, dunque razionale, che si apre alla visione nella parte superiore e l’affida alla trasparenza fredda e un po’ innaturale del plexiglass. Il rapporto tra contenitore e oggetto mostrato è certo stridente e si appropria di tutta la forza della conflittualità, così da accentuare, per contrasto, i caratteri individuali dei due mondi in dialogo. Dalla sua inclusione in un contesto rigido e lucente, quasi vetrificato, il cucchiaio assume un significato esistenziale di forte drammaticità; e il contenitore, per parte sua, assolve egregiamente ad un compito di concentrazione visiva e di evidenziazione, quasi fosse una lente d’ingrandimento che appare deformante nella sua neutralità (in realtà deformi sono i piani interni, di plexiglass “vulcanizzato”), un occhio aperto sul mondo e sugli infiniti accidenti, fermenti, contraffazioni che il mondo provoca e subisce nel continuo e imprevedibile fluire della vita.
Container and content, a productive dialogue
Carmela Corsitto’s webs symbolize all that is problematic, impredictible and out of control in human life. Following their tangles human mind loses its reference points, but at the same time it gives room for creative fantasy, or simply for daydreaming, which is always sign of joy and freedom. Yet webs do not take form in an open space, on the contrary they are forced into rigorously assigned areas, bidimensional or solid areas, as if to introduce and testify the double relationship mechanism, with a different rate of conflict, that exists between deciding and feeling, planning and creating, which determines and qualifies, beyond personal hypothesis and dreams, the actual experience of living. This double relationship is not a contrast between positions that cannot be conciliated. Actually, Plexiglas, which has the conceptual task to contain, to regulate and to put in order, is transparent and so at the same time it allows to see through and is exposure itself. Webs’ tangles have thickness in a physical sense sometimes, in a visual sense all the time, and somehow they impose their reasons to the power of content there where they appear.
The webs theme is surely a cross-reference of the informal season the artist went through. Yet it is still there in the following experience, playing an important role not only in the sense of a thematic and linguistic continuity but also as a direct and privileged interlocutor to the infinite and infinitively productive dialogue between ideas and sensitiveness.
In other works a similar privileged interlocutor role is played by the spoon object, which the artist gives a powerful deforming energy distorting its direction, visual aspect, physical substance, without compromising its general identification. Spoon keeps intact its reference to daily life, to common use, and testifies the fact that it belongs to the real world outside, which is involved not only in an allusive way in the artistic process; yet it also is a sign of torment, of function loss, of a problematic identification with itself. All this is compensated by the acquisition of a symbolic value referring to the relationship empty-full, container-content, male-female, that is some of the deepest dualism of existence.
In these works too, antagonist is the place where object appears. This place has a rigorous construction, strongly sound in its geometrical set-up, rational then, opened to sight at the top and relying on Plexiglas cold and a little unnatural transparence. The relationship between container and object on display is surely clashing and it appropriates all the conflict power emphasizing, by contrast, the individual characters of the worlds in dialogue. Included in a rigid, bright, almost glassy context, spoon acquires a strongly dramatic existential meaning; container, on its part, performs greatly its task of visual concentration and highlighting, almost as a magnifying lens appearing distorted in its neutrality, as an eye opened on the world and on the innumerable accidents, ferments caused and suffered by the world in the continuous and unpredictable flowing of life.
traduzione di Angelica Greco